Assegno divorzile minimal per la donna che ha scelto la vita da casalinga e così ha dato serenità al marito
In generale, l’assegno divorzile deve essere adeguato sia a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato a realistiche occasioni professionali e reddituali al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, sia ad assicurargli, in funzione perequativa, un livello reddituale adeguato al contributo che ha fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge

L’assegno di divorzio, che ha una funzione compensativa e perequativa, oltre che assistenziale, presuppone l’accertamento, anche mediante presunzioni, che lo squilibrio effettivo e di non modesta entità delle condizioni economico-patrimoniali delle parti sia causalmente riconducibile, in via esclusiva o prevalente, alle scelte comuni di conduzione della vita familiare. Di conseguenza, l’assegno divorzile deve essere adeguato sia a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato a realistiche occasioni professionali e reddituali al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, sia ad assicurargli, in funzione perequativa, un livello reddituale adeguato al contributo che ha fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge.
Questi i punti fermi fissati dai giudici (ordinanza numero 16083 del 16 giugno 2025 della Cassazione), i quali hanno di conseguenza riconosciuto in via definitiva il diritto di una donna a percepire dall’ex marito un assegno di 250 euro al mese.
Decisivo il raffronto tra posizioni economiche dei due coniugi: la donna può mettere sul tavolo l’assenza di redditi e di proprietà immobiliari e la sola disponibilità di una abitazione dove vive insieme ai genitori; l’uomo, invece, presenta disponibilità economiche senza dubbio maggiori, con redditi oscillanti, nel periodo compreso tra il 2014 e il 2016, tra i 17mila euro e i 19mila euro, salva una netta contrazione nel 2020 (anno della pandemia), con redditi arrivati a neanche 11mila euro.
Per completare il quadro, poi, si è appurato che l’uomo è proprietario di numerosi cespiti immobiliari, beni di immobili fruttiferi e suscettibili, quindi, di sfruttamento ai fini della produzione di reddito, ed è anche amministratore di una ‘s.r.l.’, carica da cui, però, non risulta aver percepito alcun compenso.
Per quanto concerne il tenore di vita della coppia, in epoca antecedente alla separazione, i redditi di cui la coppia disponeva all’epoca erano tali da consentire un tenore di vita decoroso.
Decisivo, però, il riferimento al contributo alla conduzione familiare prestato dalla donna nel corso della vita coniugale. Su questo fronte, difatti, si è appurato che la donna, dopo il matrimonio aveva lasciato l’impiego presso l’azienda amministrata dal marito, dedicandosi esclusivamente alla famiglia.
Va tenuto presente che l’apporto fornito dalla donna, attesa l’assenza di figli, si era risolto, in sostanza, nella conduzione della casa e nell’accudimento del marito, che lei accompagnava anche durante viaggi di lavoro, e, allo stesso tempo, va considerato che la coppia non beneficiava di alcun aiuto nei lavori domestici, che, quindi, erano curati solo dalla donna. In sostanza, l’apporto fornito dalla donna era limitato esclusivamente a tale profilo.
In sostanza, si può presumere, secondo i giudici, che l’attività casalinga della donna abbia generato, all’epoca, nel marito una certa serenità, ma non vi sono prove che il contributo della moglie abbia in altro e più incisivo modo concorso alla realizzazione personale del marito.
Il matrimonio, poi, è durato poco più di sei anni e, dunque, un tempo piuttosto limitato, benché non irrisorio, anche tenendo presente che lo svolgimento in via esclusiva dell’attività di casalinga da parte della donna ha rappresentato per il nucleo familiare un risparmio di spesa di cui si è inevitabilmente avvantaggiato anche il marito.
Da tener presente, poi, che la donna aveva, all’epoca dell’introduzione del giudizio di divorzio, circa 40 anni e, quindi, un’età che non la poneva ancora fuori dal mercato del lavoro, pur limitandone le possibilità di reinserimento. Peraltro, ella aveva già una pregressa esperienza lavorativa da sfruttare ed aveva, inoltre, conseguito il titolo di ‘operatore socio-sanitario’ e non era affetta da pregresse patologie che la rendessero inabile al lavoro.
Dunque, l’inadeguatezza dei mezzi economici della donna è dipesa solo in (gran) parte (ma non interamente) da ragioni oggettive legate all’età e alla sua fuoriuscita dal mercato del lavoro per scelta condivisa con il coniuge, fattori, questi, che l’avevano posto in una condizione certamente sfavorevole rispetto all’offerta di lavoro, anche se non avevano determinato una sua definitiva e completa esclusione dal mercato del lavoro. E, comunque, è verosimile che, in mancanza della scelta di dedicarsi alla famiglia e alla casa, la donna avrebbe continuato la propria carriera, sfruttandone le potenzialità di crescita o proseguendo il percorso come ‘operatore socio-sanitario’.